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Nel cuore del rum, nel cuore della Giamaica

Un viaggio tra canne da zucchero, tini di fermentazione e alambicchi, per scoprire attraverso tre distillerie – Appleton, Hampden e Worthy Park – l’anima ad alta gradazione tropicale della “terra del legno e dell’acqua”

Dal patio della suite di un resort con più stelle dell’Orsa Maggiore, si fa abbastanza fatica a capire cosa significhi il rum per i giamaicani. Si intravvede nel bar in stile coloniale la bottigliera stracarica di referenze, si coglie vagamente che meraviglia sia il Punch alla frutta. Però più in là non si va con la comprensione, perché l’anima vera dell’isola del reggae pulsa fuori dal cancello di queste riserve del lusso.

La Giamaica è stata fino a inizio Ottocento la maggior produttrice di rum al mondo. La canna da zucchero, che dal Pacifico nell’antichità ha viaggiato fino alle rive dell’Indo, per arrivare infine in Brasile con i colonizzatori portoghesi e diffondersi in tutto il Centro America, qui è stata il fulcro dell’economia per secoli. Sia per la produzione di zucchero, sia per la distillazione: nel 1893, giusto per avere un’idea, qui sorgevano 148 distillerie.

Il rum, tradizionalmente bianco, ovvero non invecchiato, e soprattutto a gradazione piena (overproof) scandisce il tempo e la socialità, annega i dolori dei funerali, esalta le gioie dei matrimoni, bagna le fondamenta delle case per scacciare i fantasmi (i duppies), viene evocato nelle canzoni. Insomma, è la linfa di Xaymaca, la “terra del legno e dell’acqua”. Ma soprattutto terra del rum.

Oggi le distillerie attive sull’isola sono sei, mentre soltanto due sono gli zuccherifici che raffinano. Oltre a Clarendon, New Yarmouth e Long Pond, ci sono Appleton, Hampden e Worthy Park. Quel che segue è un reportage da queste ultime tre.



Appleton Estate

La distilleria e la piantagione circostante si trovano nella parish di Saint Elizabeth, nella Nassau Valley, il cuore della Giamaica, lontano almeno un paio d’ore da tutti i centri più turistici come Montego Bay, Ocho Rios e Kingston. L’Estate risale al 1665, mentre la prima goccia di rum esce dagli alambicchi nel 1749. Dal 2009 è di proprietà del Gruppo Campari, che ha rilevato Wray & Nephew, l’azienda che oltre ad Appleton produce anche l’omonimo rum bianco, i cui cartelloni pubblicitari tappezzano letteralmente l’isola, come l’Acqua Sangemini nell’Italia del boom. Sulla strada da Montego Bay, per esempio, non passano 5 minuti senza che si incroci un bar, un chiosco o una tavola brandizzata Campari o Wray & Nephew.

Appleton è diverso, invece. È il rum invecchiato più diffuso e più esportato, quello che compri come souvenir prima di tornare in Europa. E che sia una distilleria assai avveduta dal punto di vista del marketing si capisce appena entrati in un visitor center molto studiato, che parte da una hall in cui si staglia un enorme bancone da bar. Da qui, inizia la “The Joy Spence Experience”, cioè la visita della distilleria com’è stata pensata da Joy Spence, la master distiller da circa trent’anni che ci accompagna.



Oltre una teca che custodisce una collezione di vecchi imbottigliamenti, alla fine di un corridoio ricco di cartine, fotografie e memorabilia, c’è l’immancabile video introduttivo. Dopodiché, si entra davvero nel vivo. E – cosa piuttosto unica nei Caraibi – inizia un percorso in cui vengono illustrate tutte le tappe della produzione del rum, dalla coltivazione della canna da zucchero (incredibile assaggiarla fresca, in purezza), alla macinatura, un tempo effettuata a dorso di mulo; dalla pressatura alla raffinazione della melassa. Tutto è ordinato, istruttivo, didattico come solo un management europeo può idearlo. E l’esperienza è davvero piacevole e formativa. 

Così, mentre ancora si intravvedono le strutture dello zuccherificio ormai abbandonato, è tempo di parlare un po’ di cose tecniche, prima di visitare la stanza degli alambicchi e il magazzino delle botti. 



La canna da zucchero, ad esempio: in questa zona, la più piovosa dell’isola, non ha bisogno di irrigazione artificiale. «Basta la benedizione che piove dal cielo», e lei cresce rigogliosa, bagnata dall’acqua piovana filtrata dalle alture carsiche che circondano la valle e che creano una specie di anfiteatro naturale. Qui nasce il Black River, le cui acque vengono utilizzate nella produzione. La canna – di una decina di varietà diverse – viene raccolta da gennaio a maggio e da dieci tonnellate si produce una tonnellata di melassa, dalla quale si ricavano 360 bottiglie di rum. 

La fermentazione della melassa (che viene importata anche dall’estero) dura 46/48 ore e avviene grazie agli stessi ceppi di lieviti indigeni presenti in loco dal Settecento, dando luogo a un wash di circa 8% alcolici. Sfortunatamente le vasche di fermentazione non vengono mostrate, al contrario della fase di distillazione. 

Oltre a un alambicco a colonna, la distilleria ha 5 alambicchi discontinui pot still a meccanismo “double retort” da 5mila galloni imperiali (22.700 litri). Si tratta di un impianto tipico giamaicano: dal primo retort il liquido esce a 30%, dal secondo a 75%, mentre lo spirito finale è a 86%. Seguono poi la diluizione, il blending e l’imbottamento, che avvengono a Kingston, così come la gran parte della maturazione dei barili. Qui, in un magazzino fra piante di ackee sopra alle quali volano in cerchio gli avvoltoi locali, riposa soltanto una piccola parte delle oltre 200mila botti dello stock, disposto in 16 warehouses in cui sono custoditi anche rum vecchi di mezzo secolo. 



E l’invecchiamento è un altro fiore all’occhiello di Appleton, perché tutti i barili maturano in loco, ai Tropici, dove l’angel share – l’evaporazione del liquido – è tre volte più rapida di quella europea: ogni anno si perde il 6% del liquido, ma la filosofia di Joy non ammette deroghe. Così come è stringente l’indicazione dell’età di invecchiamento, che segue un disciplinare severo ma ahimè non condiviso da tutti i produttori: gli anni in etichetta indicano l’età del distillato più giovane utilizzato per quel rum. Un 12 anni, per esempio, potrà contenere anche distillato di 15 o 20 anni, ma non distillato invecchiato meno di 12 anni. Le botti usate sono barili da 40 galloni di rovere bianco americano. 

Il tour finisce rientrando allo shop, dove – oltre al core range e agli imbottigliamenti ultrapremium come il “Decades” – è disponibile anche l’opzione “straight from the barrel”, dove si può riempire una bottiglia direttamente dalla botte. 

Il pullman riparte dopo un pranzo con pairing di cocktail a base Appleton, e la sensazione è quella di aver visitato un’isola nell’isola: una distilleria su cui Campari ha fatto un eccellente lavoro, portandola a standard di accoglienza degni dei big scozzesi o americani; una distilleria che forse ha perso un po’ di quella patina decadente e schietta di certi altri impianti caraibici, ma che ha guadagnato in servizi e piacevolezza turistica. E che per prima quest’anno inaugurerà un monumento dedicato al sacrificio dei milioni di schiavi di origine africana sfruttati nei secoli nelle piantagioni di canna. Una presa di coscienza forte che fa i conti con la storia anche sanguinaria su cui il rum ha costruito la sua fortuna. Se si vuole conquistare il mondo, la strada è quella giusta. 



Hampden Estate

Trelawny, l’area selvaggia nella zona nord dell’isola in cui ancora vivono i coccodrilli, è una specie di Bengodi del rum. Insieme alla zona del Demerara, in Guyana, sono i due veri templi della distillazione, dove davvero si capisce la complessità di uno spirito troppo semplicisticamente definito “da pirati”. Da Trelawny, infatti, storicamente provenivano i “continental flavoured” rum, ovvero lo stile di rum giamaicano dalla concentrazione di aromi più intensa. Sono questi i rum che in passato finivano a dare corpo e struttura ai cosiddetti “rum fantasia” che venivano commercializzati in Europa.

Arrivare alla Hampden Estate non è semplicissimo. Le strade sono perfino peggio della Salerno-Reggio Calabria, e soprattutto è forte la tentazione di fermarsi ogni km per una scodella di zuppa di zampe di pollo, uno spuntino di frutta o una frittella di saltfish, il pesce essiccato locale. Chi è abbastanza forte da resistere, viene ricompensato da una visita senza uguali, un salto fuori dal tempo e dallo spazio



Si entra nella proprietà percorrendo un filare di palme che sembra uscito da un racconto di Rimbaud. Nel sole terso, si muovono inchinandosi fra loro, come signore in coda alla posta che si bisbigliano nell’orecchio. Probabilmente si raccontano la storia di questa piantagione e della distilleria, che si fa risalire al 1753. Immerso nella foresta, tra foglie immense e un’umidità totale, c’è un piccolo cimitero con le pietre tombali degli antenati della famiglia Stirling. I nomi, poi, ritorneranno nella visita. 

La prima cosa che si schiude alla vista è la Great House, la casa colonica in cui vive la famiglia Hussey, che dal 2009 è proprietaria della distilleria. Romantico il retroscena dell’acquisto: in seguito a una “grazia ricevuta” (la guarigione da una malattia), l’idea era comprare uno zuccherificio e una distilleria per rilanciare un’azienda giamaicana. Alla richiesta della famiglia di acquistare Long Pond, la Jamaica Sugar Company chiede di inserire nel pacchetto anche Hampden, che era stata statalizzata nel 2003. Ancora una volta, il tesoro nascosto rimane sottotraccia. 



La distilleria organizza i tour, ma la nostra visita ha un carattere un po’ più intimo. Luca Gargano, il patron di Velier che insieme a Thierry Benitah della Maison du Whisky ha investito nel progetto e distribuisce Hampden, ci accompagna e qui è di casa. È stato lui a curare gli imbottigliamenti ufficiali fin dal 2018, anno del debutto del marchio sui mercati internazionali. Per cui l’accoglienza è speciale, con tanto di drink di benvenuto servito nel patio, tra i pavoni che scorrazzano. Saluti, convenevoli, poi è ora di entrare nella dimensione parallela del rum ancestrale

La distilleria è oltre un cancello, che chiude fuori la foresta. Dentro, il tempo e la natura sembrano aver preso il sopravvento sulla tecnologia e le macchine. È come se l’attività produttiva fosse fusa con l’ambiente e la regola aurea del “si è sempre fatto così”. Per cui, subito l’occhio cade sulla ruggine, l’ossido, la muffa. Abituati a standard occidentali, qui tutto sembra consegnarsi senza resistenza alla decadenza e all’autenticità. A partire dalla prima fase, quella della fermentazione. 



L’unicità è subito evidente. Nel mixing hole, il “buco” in cui vengono mescolati gli ingredienti della mistura che verrà poi fermentata, ci finiscono parecchie cose: innanzitutto melassa e l’acqua che dalle colline viaggia per tre miglia e sgorga dietro la distilleria, in un laghetto incredibilmente limpido circondato dai rottami dello zuccherificio ormai chiuso. Poi ci vuole il succo di canna, che viene coltivata appositamente. Non è fresco, come nel rhum agricole di tradizione francese, ma viene lasciato tre mesi ad acetificare con lieviti selvaggi. La madre dell’aceto ha oltre 250 anni. Non basta, ci sono altri due ingredienti: il dunder, ossia il residuo dealcolato delle distillazioni precedenti, e il mockpit. Vedere con i propri occhi cosa sia questo mockpit, è il motivo per cui vale l’intero viaggio fino a qui. 

Il mockpit è l’equivalente della pietra filosofale che gli alchimisti cercavano per tramutare i metalli in oro. All’interno del capannone, tra i tini di fermentazione, si apre un fossato nel pavimento. L’odore è percepibile fin dal filare di palme all’ingresso della tenuta, ma qui diventa incredibilmente pungente. Decomposizione, putrescenza, rancido. Un mix non esattamente invitante. Arriva tutto da questo fossato, al fondo del quale c’è una sorta di palude di cui nessuno conosce l’esatta estensione. Sono acque stagnanti, che funzionano da incubatrice dei lieviti selvaggi che da sempre garantiscono una fermentazione spintissima, in grado di produrre un rum dall’altissima concentrazione di congeneri. Il mockpit, che viene ciclicamente rimestato con un bastone per areare il fondo, è “alimentato” con carichi di frutta lasciata marcire appositamente. Scoperchiare il fruit vat che la contiene fa capire cos’abbia provato Pandora ad aprire il vaso: sciami di moscerini, una morte nera di frutti del pane e jackfruit marcescenti e un olezzo infernale. 



Ma torniamo al mockpit, che è responsabile dell’esterificazione (data da etanolo e acidi) e dell’acido butirrico, che conferiscono il tipico sentore di banana e soprattutto ananas. Quando si deve distillare, a seconda del livello di congeneri che si vuole ottenere, si pescano uno, due o tre secchi dalla palude Stigia e si aggiungono al liquido. Più mockpit, più il rum sarà intenso. Poi, si lascia fermentare. 

Neppure i proprietari sanno esattamente quanti siano i tini di fermentazione. Probabilmente una settantina, tra i quali anche esemplari secolari. Alcuni sono vuoti, in altri il mosto ribolle allegro, in altri ancora c’è una crosta spessa ed esausta di lieviti morti che segnala la fine del processo: dopo due settimane, si arriva allo stadio del dead worth. Dopo un’ulteriore seconda fermentazione di una settimana, è tempo di distillare. 

Gli alambicchi qui sono tutti “double retort” pot still. Sono sei, diversi tra loro per grandezza e fabbricazione: tre sono Forsyth scozzesi, uno è sudafricano (T&T), uno americano (Vendôme) e uno britannico, il gigantesco John Dore chiamato The Elephant. In passato, tutti erano riscaldati a fuoco diretto. Si bruciava il bambù, l’unica pianta che non fornisse cibo. Ora invece ogni alambicco ha un radiatore all’interno che lo riscalda. Da 5mila galloni di wash, si ottengono tra i 250 e i 500 galloni di rum a 80%. 



Qui, mentre attraversiamo il resto dell’impianto fra trattori guasti da parecchi decenni e sotto un sole immobile e sospeso, Andrew racconta che fine fa il rum di Hampden. Del milione di litri di alcol che ogni anno viene distillato, il 98% non viene invecchiato. In larga parte viene venduto ai grossisti olandesi di Scheer, che poi lo rivendono a broker di barili che lo fanno invecchiare in Europa, ma anche a tantissime aziende attive anche nel campo della cosmetica e del tabacco, a cui fa gola l’estrema potenza aromatica di Hampden. Il 2%, invece, viene invecchiato proprio qui, in una warehouse costruita nel 2019, caotica e affollata come la cameretta di un adolescente. Lo stock è di 3.500 barili: ci sono botti ex sherry Oloroso Pata de Galina, sherry Lustau, barili di 40 anni provenienti dalla solera di Pedro Domecq… Ognuno con sopra un codice misterioso, il mark

Ora, il mark è un altro di quei concetti per cui il mondo del rum è un rompicapo per solutori più che abili. Il mark è una sigla e indica la ricetta del rum (ne avevamo parlato anche qui). Oggi come in passato, le distillerie producono diversi tipi di rum: diversa materia prima, diverse fermentazioni, diversi alambicchi. Mentre pranziamo a jerk beef alla griglia e assaggiamo la torta al rum fatta in casa, assaggiamo dei campioni. I mark che si producono qui sono (almeno) otto. Si parte dall’OWH, quello più leggero, per arrivare al DOK, che ha fra i 1500/1600 grammi di congeneri ogni cento litri. Le sigle ricordano in parecchi casi gli antenati della famiglia proprietaria, quelli che riposano nel piccolo camposanto all’entrata. 



Prima di ripartire, ancora abbastanza scossi per quello che è in tutto e per tutto un salto in un passato da conservare ad ogni costo per preservare l’unicità produttiva e sensoriale di Hampden, l’occhio cade su alcune croci nella terra. No, non sono altri antenati. La spiegazione è la degna, incredibile conclusione della visita: sono fosse in cui ogni 5/7 anni viene versato parte del famoso mockpit. Funziona come un “backup di emergenza”: quando la palude è “scarica” viene riesumata la terra bagnata con il liquido del passato, che viene buttata nel fossato per riattivare il sistema di lieviti e batteri… «Life is never simple – ci dice Andrew sorridendo – senza fortuna non succede niente di buono, e io non ho mai neanche pensato di cambiare qualcosa qui».
Hampden, più che una distilleria, un santuario sciamanico che sfida la modernità. 



Worthy Park

L’ultima delle tre distillerie del nostro giro in giro per la Giamaica è Worthy Park. Ci si arriva senza eccessivi problemi da Port Antonio, estremità orientale dell’isola. E bisogna dire che nessun’altra può vantare un colpo d’occhio altrettanto suggestivo. Dalla strada, si apre una fantastica vista sulla conca sottostante, i diecimila acri (di cui 4mila coltivati a canna da zucchero) della Lluidas Vale.

Qui, nel 1670, il capitano inglese Francis Price fondò quella che è la più antica piantagione con distilleria e zuccherificio dell’isola. Nel 1720 apre la sugar factory, una delle sole due ancora attive oggi, mentre nel 1741 inizia la distillazione. La famiglia Clarke, che ancora è proprietaria, subentra nel 1918. 



Le date lasciano il tempo che trovano. Restano appese, non si capisce bene con che significato, come i ciuffetti di erba che si trovano sui fili della corrente dei tralicci da queste parti. Eppure le date aiutano a capire. Nel 1962, con l’indipendenza dal Commonwealth britannico, la domanda di rum crolla e la distilleria chiude insieme ad altre sette. Nel 2005 la decisione di riaprire illumina il solito Luca Gargano, che da Genova scrive una mail, destinata a rimanere senza risposta, per comprare qualche barile. Anni dopo ce la farà, imbottiglierà alcuni Worthy Park per Velier e diventerà il distributore. Ma andiamo con ordine, a partire dallo slogan di casa: «Go where WiFi is weak and rum is strong»

A dire la verità qui il cellulare prende benissimo durante il tour con l’export manager Zan Kong, che fa gli onori di casa e ci accompagna. Worthy Park è un perfetto esempio dello stile giamaicano chiamato “common clean”, i rum più diffusi e bevuti sull’isola, non eccessivamente intensi dal punto di vista dei congeneri. La peculiarità è data soprattutto dal fatto che è l’unico a potersi fregiare della dicitura di “single estate rum”, dato che tutta la materia prima distillata proviene dalla piantagione e dalla sugar factory. Ogni anno vengono prodotte in media 210mila tonnellate di canna, di 20 varietà diverse. Nello zuccherificio la canna viene lavorata entro le 24 ore successive alla mietitura in cinque mulini alimentati a bagasse, ovvero i residui della canna. Ecosostenibilità totale. L’acqua, che proviene da tre diverse sorgenti, arriva attraverso un acquedotto del Settecento. 



Come di consueto, la visita parte dalla fermentazione. Anzi, a dire il vero qui si dovrebbe dire dalla pre-fermentazione. Perché – e questa è un’altra peculiarità – qui il succo, la melassa e pezzi di canna vengono lasciati per 90 giorni in enormi tini di legno in cui le reazioni chimiche iniziano a svilupparsi. Da qui, si passa alla fermentazione vera e propria, che avviene in sei tini di acciaio e dura tra le due e le tre settimane: 4 sono per i mark di rum più leggeri, 2 per quelli più intensi. Si tratta di una fermentazione controllata a 30° C particolarmente lenta, per sviluppare gli aromi in maniera costante. 

Nonostante la produzione sia consistente (2 milioni di litri annui di alcol), l’alambicco è uno solo: un pot still Forsyth riscaldato a vapore e “incamiciato” in legno per non dissipare il calore, con un rettificatore sul retort dedicato alle “teste” di distillazione, gli high vines. Inizialmente, si era pensato di usare l’alambicco a colonna, ma alla fine si è deciso di scommettere sul pot still, più autentico, innovativo, e dunque potenzialmente trendy. Dall’alambicco lo spirito esce a una gradazione di 87% ed è pronto come sempre a seguire i due destini del rum: essere imbottigliato subito come rum bianco o venire invecchiato.



Nel magazzino dedicato, nell’edificio dietro l’impianto di imbottigliamento al quale lavorano una quarantina di dipendenti, riposano oltre 10.500 barili. Uno stock ampio per una piccola, grande distilleria. Che in futuro punterà soprattutto su tre capisaldi: più mark “pesanti”, per rum più muscolari; più special releases e single barrel, edizioni limitate ed esclusive; e più affinamenti in botti particolari, dal cognac al porto fino al madeira. 

Così, mentre alla fine del tour si degusta il core range del marchio Rum Bar (la linea più da miscelazione) e alcune espressioni invecchiate (il Single Estate Reserve e soprattutto un eccellente single cask), c’è grande soddisfazione per aver visto da vicino i segreti di tre distillerie diverse anche per filosofia. Dal colosso Appleton che si sta facendo carico della crociata per la trasparenza all’alfiere del metodo ancestrale Hampden, fino alla dinamica realtà “autarchica” di Worthy Park. Cinquanta sfumature di rum dalla Giamaica con amore.



 

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