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Rum, Hearts Collection in anteprima mondiale

La degustazione – in esclusiva – dei “magnifici sette” di Appleton Estate, mano nella mano con la leggendaria master blender Joy Spence e Luca Gargano di Velier

Si può degustare con il naso, lasciandosi sedurre dai profumi; si può farlo seguendo solo la pancia e la nostra parte istintuale; si può perfino – a proprio rischio e pericolo – degustare con gli occhi, ingolositi da marchi lussuosi e packaging esagerati. Ma se qualcuno ha selezionato e imbottigliato qualcosa con il cuore, beh anche chi degusta dovrà affidarsi al sentimento e alla passione, calarsi nel mood, fondersi con il liquido che riposa nel bicchiere. Perché per certi prodotti – che brutta parola – condividere quel pezzetto di emozione è parte integrante dell’esperienza sensoriale.

Supercazzole da corso universitario di Estetica a parte, abbiamo avuto la fortuna di prendere parte a un tasting piuttosto unico, che vale la pena raccontare. Abbiamo assaggiato in esclusiva tutte e sette le espressioni della Hearts Collection di Appleton Estate, la principale distilleria di rum giamaicana. E lo abbiamo fatto proprio in Giamaica, nella “Joy Spence room” del visitor centre, recentemente rinnovato dalla proprietà (Gruppo Campari). A guidare la degustazione, la stessa Joy Spence, da trent’anni master blender di casa e personaggio ormai leggendario del mondo del rum, assieme al patron di Velier, Luca Gargano.

Il rum e il caos

Ora, prima di esaminare le differenze fra i sette, eccezionali distillati, vale la pena spiegare perché la Hearts Collection è unica nel suo genere. E perché è considerata un punto di svolta a livello globale. Occorre solo un po’ di pazienza, perché si parte da lontano, ovvero dalle radici del rum. Il quale ha il suo periodo d’oro nel XVII secolo, con la diffusione della canna da zucchero nei territori di Centro e Sud America colonizzati dagli europei. La distillazione del succo di canna o dei sottoprodotti della raffinazione dello zucchero, come la melassa, si diffonde ovunque, così come l’odioso ricorso a schiavi africani per il lavoro in piantagione. A seconda delle influenze coloniali, si sviluppano diverse tipologie di rum, diverse pratiche di fermentazione, diversi alambicchi.

Complice l’eterogenea provenienza e il grande frazionamento delle isole caraibiche, sotto il cappello del rum nei secoli sono finiti prodotti diversissimi, dal rhum agricole di origine francese, da succo di canna, ai pesantissimi rum Demerara della Guyana, fino ai rum industriali moderni. Colonizzatori diversi, materie prime diverse, Stati diversi, regole diverse. Il risultato è un caos totale in cui le norme sono così lasche da confondere i consumatori e in cui alcune singole realtà (l’AOC del rhum della Martinica, oppure il disciplinare giamaicano) cercano di darsi limiti e trasparenza.

Il sogno del “pure single rum”

Si arriva agli ultimi anni, quelli in cui la trasparenza appunto diventa fondamentale per creare un mercato premium. Ed è qui che inizia a farsi sentire un movimento sempre più ampio di “difensori” del rum, capitanati da Luca Gargano. Lui, pioniere del distillato di canna in Italia, titolare dell’azienda di distribuzione e importazione genovese Velier, elabora una sua classificazione, raccoglie adepti, si batte per etichette che chiariscano se il distillato proviene da una sola distilleria, in che tipo di alambicco è prodotto, se è invecchiato ai Tropici o in Europa, con escursioni termiche più limitate che ne rallentano la maturazione. Insomma, Luca Gargano porta avanti una battaglia per valorizzare il “pure single rum”, un’eccellenza che merita di condividere il trono dei distillati di qualità con il single malt.

In questa sua veste, nel corso dei suoi innumerevoli viaggi e conferenze, incontra Joy Spence. I due si stanno simpatici – logico, sono due vulcani di idee e spontaneità – e iniziano a chiacchierare. Da una parte c’è lui, che ha un sogno: imbottigliare almeno un barile di rum prodotto in alambicchi pot still proveniente da ogni distilleria dei Caraibi. Dall’altra parte c’è lei, prima donna a guidare una distilleria di rum, che da sempre ha il sogno di creare un Appleton esclusivamente dagli stessi, iconici alambicchi, i famosi double retort pot still. Non ci vuole molto perché il duplice sogno si trasformi in realtà. Nel 2020 Joy seleziona dieci dei 200mila barili della distilleria, li assaggiano alla cieca e scelgono esattamente gli stessi tre. Nascono così i primi tre imbottigliamenti della serie.

Hearts Collection, i magnifici sette

Ma quali sono le peculiarità di questi rum? Innanzitutto sono “single mark”. “Mark” è un termine fondamentale nel rum, e più o meno indica la “ricetta”. Storicamente, ogni distilleria produceva diversi stili di rum (diversi alambicchi, diversa provenienza della materia prima, diversa fermentazione ed esterificazione), ed ognuno era contraddistinto da una sigla, il “mark” appunto. Secondo, come ampiamente detto sopra, tutti sono distillati nel classico double retort pot still, mentre spesso i rum commerciali sono distillati a colonna o sono blend di entrambi i tipi di alambicchi. Inoltre, sono tutti vintages – cioè distillati in una sola annata – e tutti subiscono un lungo invecchiamento ai Caraibi. Infine, su ogni etichetta è riportata la quantità di esteri e congeneri rilevabile nel distillato.

Nel 2020 sono stati lanciati il 1994, il 1995 e il 1999, seguiti l’anno successivo dal 1984 e dal 2003. Ora, in esclusiva mondiale, abbiamo assaggiato anche il 1993 e il 2002, che chiudono la collezione e saranno lanciati sul mercato europeo – e dunque anche in Italia – a febbraio. «Un passo importante per Appleton – spiega la stessa Joyperché ne eleva il prestigio e lo rende finalmente percepibile come un rum “puro”. In questo mondo la categoria premium è sempre più la stella polare, ma in pochi possono vantare uno stock come quello di Appleton. Che infatti ora ha un obiettivo: diventare leader in questo settore». Una piccola rivoluzione, insomma. Perché un conto è se a condurre la battaglia per la qualità e la purezza sono realtà di nicchia, un altro se si muove un marchio mondiale di proprietà di un colosso come Campari.

Abbiamo sproloquiato abbastanza, è tempo di iniziare una verticale finora intentata, una specie di scalata invernale al K2, ma meno pericolosa e più divertente.

Hearts Collection 1994
(26 anni, imbottigliato 2020, 60%, congeneri 1184 g/LAA, 3000 bottiglie)

Si apre con un naso invernale affascinante, anche se fuori ci sono le palme e sul tavolo frutta esotica. Bucce di arance lasciate sulla stufa, caldarroste, un incantevole tocco affumicato che sfuma in un guizzo acetico. Caffè etiope e cannella, forse chinotto. Una piccola diluizione schiude un paradiso aromatico di mirra, tabacco da narghilé (e sigari alla vaniglia) e legno di rosa. Forse lime kaffir, anche. Il palato è severo, carico e maschio: tanto legno, bacche tostate (ginepro!), caffè, cacao e liquirizia pura. Finale tostato e affumicato ancora, con lampi di cannella e stecca di vaniglia. E una sensazione umami in fondo, forse jerky beef, insieme saporito e dolce.

Un rum di eccezionale complessità, cangiante e sontuoso, che unisce un corpo possente a suggestioni speziate e tostate. Per noi, il migliore della serie.

Hearts Collection 1995
(25 anni, imbottigliato 2020, congeneri 1440 g/LAA, 63%, 3000 bottiglie)

Rum di un mark diverso, ed è facilmente riconoscibile il perché. Più esteri e anche tre gradi in più. L’olfatto è più fresco, ma anche meno robusto. In generale, i toni sono fruttati e snelli, con buccia di mela rossa, pesche al vino e un senso mentolato. Il che non è per forza un male, tutt’altro. Più pimpante che venerabile. Il palato invece è tutta un’altra storia, più che altro per l’alta acidità: cioccolato del Madagascar, china, perfino un tocco vinoso. Astringente e nervoso, sembra più “gastronomico” con quella legnosità accentuata. Il risultato è infatti una salivazione accelerata. La diluizione non giova, la beva si fa un po’ allappante. Il finale è sulla stessa falsariga, con legno, tabacco e un retrogusto di agrume amarognolo.

Davvero molto diverso, originale ed esemplificativo del concetto di “mark”. Soprattutto in bocca risulta ostico e appuntito, originale ma non facile.

Hearts Collection 1999
(21 anni, imbottigliato 2020, 63%, congeneri 855 g/LAA, 3000 bottiglie)

Meno congeneri presenti e invecchiamento relativamente più breve si riflettono in un olfatto di morbidezza sensuale, molto scuro, centrato su melassa e caramello. Anzi, barretta Mars, con caramello e cioccolato al latte. Ancora arancia, ancora caffè, ma stavolta zuccherato. Una clamorosa tarte tatin di prugne, con un filo di fumo e un profumo di fichi secchi, chiude il cerchio. Il palato è molto equilibrato, il legno è meno marcante dei primi due. Zenzero, tanta frutta secca (noci, arachidi tostate) e tanto cioccolato: arance dragée. Finale ancora tostato, croccante di frutta secca e un accenno di sale. In qualcosa ricorda l’Old Fashioned. Il cocktail, non la discoteca di Milano…

Una facilità di beva clamorosa per un terzo approccio al rum giamaicano, basato sull’equilibrio delle forze in campo, pardon, nel bicchere. Forse meno complesso, di sicuro più piacevole e immediato.

Hearts Collection 1984
(37 anni, imbottigliato 2021, 63%, congeneri 2197 g/LAA, 1800 bottiglie)

Qui si gioca una partita a parte, perché 37 anni ai Tropici è davvero un invecchiamento monstre, quindi ci aspettiamo un rum vetusto. E non rimaniamo delusi, perché il naso è un carnevale: si apre con una botta di spezie del vin brulé (cannella, chiodi di garofano), Cointreau e pan di zenzero. Ma non basta, emergono poi frutta rossa disidratata e cuoio conciato. Con acqua si amplifica proprio questa parte, un filo più acetica ed esterificata. Un miracolo olfattivo. Al palato il contrappasso inevitabile: il legno è sovrano assoluto, pizzica, ingombra, scalpita. Peperoncino, un retrogusto di fumo, un’astringenza serrata che si evolve in un finale di caffè fruttato e rancio. Da evitare la diluizione, che scompensa un palato già in bilico sul crinale degli anni.

Hearts Collection 2003
(18 anni, imbottigliato 2021, 63%, congeneri 688 g/LAA, 5000 bottiglie)

Congeneri inferiori per il meno longevo della serie, che infatti sfoggia un naso etereo e fruttato, che qualcuno potrebbe anche definire femminile se non fosse che queste distinzioni sensoriali di genere non hanno senso. Miele di castagno, tanta banana flambé, toffee. E un bellissimo guizzo di fragole e pesche che ricorda certi distillati di vino. Il palato si conferma votato alla leggiadra piacevolezza, con melassa, vaniglia e frutti neri. A cui si somma una sfumatura di legno tostato e gianduia. Il finale è tra i meno persistenti, anche se piacevole: caramello bruciato e pesche al forno.

Per certi versi, un parente stretto del 1999, con cui condivide la bevibilità assoluta. Anzi, qui siamo un passo oltre, è davvero una carezza in un bicchiere.

Hearts Collection 1993
(29 anni, imbottigliato 2022, 63%, congeneri 1456 g/LAA, 3600 bottiglie)

Ed eccoci alle ultime due espressioni della serie, lanciate nel corso di un evento in Giamaica a fine 2022. Quasi trent’anni di invecchiamento restituiscono un naso vivace e piccante, con cannella e noce moscata fuse a pompelmo rosa e cioccolato. Speziato e fruttato, molto omogeneo. In bocca è impegnativo, liquirizia pura, menta, legno, tutto ad alta intensità, senza troppe concessioni alla piacevolezza. Tra tutti, forse il più secco e austero, dritto come una spada, a costo di essere un filo allappante. Finale eterno di legno affumicato e noci.

Si torna dalle parti dei rum da gentlemen club: cioè rigorosi ed eleganti, con una severa selezione all’ingresso. Astenersi palati in cerca di facili avventure.

Hearts Collection 2002
(20 anni, imbottigliato 2022, 63%, congeneri 834 g/LAA, 5700 bottiglie)

La festa è appena cominciata ed è già finita, Joy si appresta a commentare l’ultima pagina del suo romanzo liquido con Luca. E l’ultima pagina non tradisce, perché a sorpresa si cambia di nuovo, con un olfatto asprigno, tra mandarino e kiwi, arricchito da note viniliche delicate e da spezie molto particolari: invece di cannella e vaniglia, ricorda più che altro curcuma e cardamomo. Velatamente floreale, con qualche goccia d’acqua profuma quasi di burro fresco. Al palato è più rigido del previsto, con legno e un fumo leggero di incenso. Tanta arancia amara, china e mokaccino. Il finale lo disegna il barile, con legno bruciato e peperoncino.

Ideale anello di congiunzione fra la bevibilità e l’assertività, del tutto originale nella fase olfattiva e più consueto (per la collezione) al palato. Da premiare la sorprendente vibrazione fruttata e floreale al naso.

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