Cillario & Marazzi, i sarti del Gin

Non sarà da questi particolari che si giudica un albergatore. Che – parafrasando De Gregori – “lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”, così come lo vedi dall’ospitalità, dalla raffinatezza e dal gusto estetico. Epperò forse anche il gin ha il suo peso.

Viene da pensarlo mentre si sfoglia la classifica dei “Top 10 Best resorts in Italy” di Travel and Leisure. Già, perché ben 4 su 10 condividono un dettaglio più sottile, ma decisamente non trascurabile. Rosewood a Castiglion del Bosco (primo), San Pietro a Positano (terzo), Villa Serbelloni a Bellagio (sesto) e Villa d’Este a Como (decimo) servono tutti ai loro clienti un proprio gin esclusivo, realizzato su misura dagli stessi artigiani dell’alambicco: Cillario & Marazzi.



Prima di proseguire e raccontare chi si nasconde dietro questi due cognomi, ai quali auguriamo di restare scolpiti a braccetto nell’immaginario dei bevitori come Moët & Chandon (ma magari anche meno, d’accordo), fermiamoci un attimo a riflettere sul termine “artigiani”. Bella parola, evocativa, spesso usata a sproposito. Ad esempio, i birrifici artigianali americani a volte producono quanto una fabbrica europea di medie dimensioni. Se invece si tratta di un ingegnere e di un avvocato con l’hobby della distillazione, di una casetta in montagna ai confini con la Svizzera, di un alambicco Müller pulito manualmente con succo di bergamotto e sigillato prima di ogni cotta con una pasta di acqua e farina, beh, allora “artigiani” è davvero la parola giusta.

Attilio Cillario e Gigi Marazzi, ad ogni modo, prima di essere artigiani sono professionisti.

Milanesi entrambi, appassionati di gin tonic e soprattutto di Martini cocktail, sono finiti quasi per caso a distillare. E oggi, con il loro concetto di “gin sartoriale” realizzato su misura, hanno più di trecento clienti. Ma partiamo dall’inizio, e cioè dall’amicizia nata perché i figli sono compagni di liceo. Un giorno, Gigi ha bisogno di un avvocato per moleste beghe di vicinanza nella casa al mare. Attilio se ne occupa, ma la parcella non la emette, a posto così, ci mancherebbe. E Gigi, per sdebitarsi, sapendo che l’amico si diletta a distillare frutta in pentole a pressione o giù di lì, gli regala un alambicco tedesco in rame, un bestione da cento litri.



I primi esperimenti sono agghiaccianti, poi la divinità del ginepro si muove a compassione…

Attilio lo chiude in garage per un po’. Poi, a forza di sorseggiare Gin da tutto il mondo durante le loro cene a Chiavari, pian piano si fa strada l’ardita idea: provare a creare un Gin tutto loro. Attilio si chiude nel garage della casa di Viconago come in clausura. Zero tutorial su YouTube, zero consulenze, vuole provare e sbagliare tutto da solo. I primi esperimenti sono agghiaccianti, poi la divinità del ginepro si muove a compassione, guarda giù e come per magia sgorga per la prima volta qualcosa che sa davvero di gin.

Le prime 50 bottiglie clandestine sono per gli amici. Clienti, parenti, ma anche baristi e sommelier. Che li incoraggiano e li spingono a superare perfino lo scoglio della burocrazia, devastante quando si ha a che fare con gli alcolici in Italia. Scartoffie, lungaggini e alla fine nel 2017 per la prima volta viene comunicato il progetto. Durante un Gin Day a Milano, Ausilia – la moglie di Attilio – si presenta al loro misterioso stand con bottiglie altrettanto enigmatiche. Sull’etichetta la scritta: “Qui c’è il nome del tuo gin”.

Detto così, nell’anno di grazia 2022, sembra banale. Distillazione conto terzi, così fan tanti. Vero, oggi sì, anche se non tutti ad alto livello. Ma nel 2017 non era così. E iniziare a farsi conoscere da zero non era semplice. Serviva il “cliente zero”, quello di peso, che fa circolare il nome. Il loro è stato il Trussardi Cafè, e la loro bottiglia iconica quadrata con sopra la silhouette del levriero è ancora bellissima da vedere a tanti anni di distanza. Da lì in poi, è stato un continuo, costante crescere. Sia come volumi, sia come know how. Perché distillare è come uno sport, più lo si pratica, più si migliora.



Tutti arrivano dall’Attilio, che valuta la fattibilità e – se proprio la ricetta non sta in piedi – non si fa problemi a bocciarla

D’altronde, l’idea di un Gin “cucito su misura”, in cui si scelgono le stoffe – pardon le botaniche – insieme, si fanno le prove e infine si confeziona il risultato, ha bisogno di precisione e perfezione. Funziona così: il cliente va a trovarli lassù sui monti, con in testa un’idea di Gin. Si può partire dalle botaniche, come l’hotel Molino Stucky che voleva valorizzare le erbe della Laguna veneziana, o da chi come “Elixir” chiede di usare piante anti-ossidanti tipo il sommacco, o “Blaue”, che punta sulla ricetta medicea del cioccolato. Oppure ancora si può partire da una sensazione – il Cavalleresco Ordine dei Guardiani delle Nove Porte cercava qualcosa che ricordasse la polvere da sparo – o da un’idea filosofica. E’ il caso di Vincenzo Donatiello, prima restaurant manager del tristellato Piazza Duomo di Alba e ora a Doha, che cercava di ricreare “il pinot nero dei gin”. Tutti arrivano dall’Attilio, che valuta la fattibilità e – se proprio la ricetta non sta in piedi – non si fa problemi a bocciarla.

Il resto è un lavoro di cesello, seguendo il metodo London Dry, o forse bisognerebbe chiamarlo “Italian Dry”: acqua sorgiva, alcol di grano kosher e una serie impressionante di botaniche di qualità, coltivate in loco o reperite in mezzo mondo dai loro “agenti segreti” (sssst, c’è di mezzo la Cina…) prima di finire nel “duomo” dell’alambicco, per la cotta di 12 ore. Qualche esempio? Pompia dalla Sardegna, aglio nero, anguria, alga wakame, tè Lapsang Souchong, cascarilla, peperone, aneto, olio d’oliva… Senza dimenticare quelli che Attilio chiama gli “esercizi spirituali”, ovvero la creazione di un “database sensoriale” degli alcolati delle singole botaniche, da cui poi partire per la creazione di nuove ricette. Roba da matti. O da perfezionisti, che a volte si sa, i confini fra le due categorie sono labili.

Che la cosa funzioni, oltre alla nascita di nuovi prodotti come il vermut e il bitter “1920” e allo strepitoso cassis dalle piante di ribes nero di Borgogna che crescono sui terreni di Viconago, lo testimonia appunto l’ampliarsi del portafoglio clienti. I 4 resort di cui sopra, ma anche – fra gli altri – il Luogo di Aimo e Nadia e il Dry a Milano, la masseria Torre Maizza in Puglia, il Grand Hotel et des Palmes di Palermo. E ancora, fra gli ultimissimi nuovi arrivi, il Waldorf Astoria di Roma con il suo gin a base di cedro di Diamante, il Principe di Savoia e l’hotel NH a Milano (il secondo nella zona dell’antico Verziere, e dunque gin a base di porro…); il Don Alfonso di Iaccarino a Napoli, perfino la catena di enoteche svizzere Vinarte.



Con nomi e numeri così importanti – si viaggia a 1.800/2.000 bottiglie al mese –, i tempi del puro e innocente passatempo fra amici sono finiti. E ora che in azienda sono entrati anche i figli, Cillario & Marazzi sono sempre più destinati a fare sul serio, sempre mantenendo però quella leggerezza spensierata degli inizi, quella per cui la gioia vera è provare e sperimentare cose nuove. Dai vermut con Timorasso e Sagrantino al ginepro himalayano fino al triplo assenzio, il segreto è sempre quello: chi si diverte, non si annoia e non sbaglia mai.

Classe 1982, è cresciuto a Cremona ma a Milano è nato, si è laureato, vive e lavora come giornalista: in sostanza, è fieramente milanese fin nel midollo. Proprio come il risotto. Quando non si occupa di cose più serie ma più noiose, scrive di distillati: ha collaborato con scotchwhisky.com, fa parte della squadra di whiskyfacile.com e tiene la rubrica settimanale “Gente di Spirito” sul Giornale, di cui è vicedirettore dal 2017. Forse in gioventù ha letto troppo, e così si è convinto che solo gli alambicchi non mentano mai e che da lì esca la vera anima degli esseri umani.

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