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Mate, vero e proprio simbolo di un paese

Non uno spirito, ma sicuramente ‘autoctono’, la bevanda tipica dell’Argentina, tra tradizione e usanza contemporanea

Chi non lo conosceva prima dei campionati mondiali di calcio, ora lo avrà almeno visto nelle fotografie di Lio Messi che anche nel letto aveva in mano il suo inseparabile mate.

Se siete appassionati di caffè o tè, non potete ignorare l’importanza che riveste nell’America del Sud la cosiddetta yerba mate, o più semplicemente il mate. La parola si riferisce al tipico e caratteristico contenitore fatto di zucca o legno da cui bere ma partiamo dal contenuto e dalle sue antiche origini. «Ha una storia di cinque secoli, fu scoperto dagli indigeni guaraní che gli conferivano più di dodici utilizzi diversi. Nel suo stato naturale è un albero che raggiunge anche i 20 metri d’altezza (l’Ilex paraguariensis), di cui vengono utilizzate le foglie triturate, una pianta nativa del Sud America appartenente alla famiglia delle Aquifoliaceae», racconta Valeria Trapaga, prima sommelier argentina specializzata nella yerba mate, autrice del ibro “El mate en cuerpo y alma”.



«Il mate nasce come pozione curativa – continua Trapaga –. Il principio secondo il quale questo popolo si basava per il consumo del mate era la reciprocità che organizzava la società: ciò che dai torna, quindi da qui la condivisione della bevanda. I gesuiti cercarono di proibire il mate ma poi ne fecero un affare. Con l’arrivo degli immigranti si spinge ancora di più la riproduzione di semi e delle piante, e in quel contesto inizia a sorgere la produzione in grande scala. Oggi il mate viene assunto come fonte di caffeina accanto o al posto di tè e caffè, ma anche come ricostituente per le sue proprietà farmacologiche, oggetto di numerosi studi».



La yerba mate proviene da due province argentine distinte, Misiones e Corrientes, ma anche dal Brasile e dal Paraguay centrale. Lo stile di erba mate ha a che fare principalmente con la macinazione ma anche con il tipo di essiccazione, «fatta alla vecchia maniera – secondo un processo di disidratazione le foglie sono esposte al calore della legna bruciata per 10-12 ore – rilascia leggere note affumicate, la industriale a nastro invece non incide in nessuno modo. Quanto al ruolo importante della macinazione: grossolana o intensa, dove l’erba viene trattata in base alla varietà, al modo in cui è stata raccolta e al periodo dell’anno in cui è stata lavorata. Le diverse parti della pianta sono mescolate in proporzioni variabili, a seconda della provenienza e della marca di yerba mate che si sta producendo», continua la sommelier.

Quanto alla parola “mate”, ci riferisce invece al più tipico contenitore tondeggiante fatto di zucca essiccata, ma anche legno e più recentemente vetrificato o di silicone, abbinato alla bombilla, una cannuccia in acciaio con cui bere, complementare al rituale e quindi al consumo. «Per l’analisi sensoriale io utilizzo la tipologia in vetro perchè è neutro e non c’è il rischio di alterare i sapori».



Quando Valeria Trapaga dalla provincia andava a studiare a Buenos Aires, portava con sè l’acqua di casa per sentire meno nostalgia, in questo modo dava il sapore dei suoi cari ai mate che preparava. «Percorrendo le zone rurali verso la capitale mi resi conto del potere che il mate ha di unire. Studiando come sommelier del vino mi resi conto che altrettanta importanza e attrattiva risiedeva nell’antica bevanda. E da qui ho iniziato un percorso ormai ventennale dedicato a questo grande simbolo. Forma parte della nostra storia, fu sempre presente nella costruzione dell’identità argentina: nella letteratura con Borges, nel folclore, nel tango con Enrique Santos Discepolo, nel Martin Fierro – il famoso poema gauchesco folclorico – Identifica la nostra maniera di sentire e di essere: amichevoli, appassionati e innamorati della condivisione».



Il rituale del mate prevede un protocollo semplice e umile: acqua a temperatura calda (fra i 70 e 80 gradi), cannuccia (bombilla), erba mate e il mate (il contenitore corretto ha la base stretta e la bocca grande). Un buon cebador, così come è definito colui che lo prepara e poi lo offre, colloca tre quarti dell’erba nel recipiente, la posiziona in forma obliqua e aggiunge un pò d’acqua, colloca la cannuccia assicurandosi che la polvere non copra gli orifizi della cannuccia e inizia a “cebar”, a nutrire cioè la mistura con acqua e renderla appetitosa per chi la riceve. Ci deve essere dell’amore nell’arte di cebar, si compie il giro del gruppo finchè non finisce il thermos riempito di acqua calda.

Giornalista nato in Abruzzo e vissuto a Chieti finchè non ha ricevuto la “chiamata”: subito dopo il diploma infatti, comincia il percorso nell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo che lo ha poi portato a ciò che è oggi, un gastronomo. Specializzato nella cucina (e non solo) dell’America Latina, vive a Milano e conduce il suo programma televisivo “Mangio Tutto Tranne” su Gambero Rosso Channel.

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