Texture, Shibui, Kaizen e il limite. A lezione di filosofia del whisky giapponese – vol.3

Il segreto del Sol Levante è soprattutto un fatto culturale, fatto di tanti piccoli dettagli. Terza tappa del nostro viaggio alla scoperta di come si assimila una tradizione alloctona, rendendola più autoctona che mai. Non senza qualche paradosso.

 

L’anima e il palato oltre la tecnica

Dei tanti libri scritti sul whisky giapponese, uno in particolare racconta con passione e conoscenza commovente questo mondo: “The whisky way: a journey around Japanese whisky”, scritto dallo scozzese Dave Broom. Il quale ha visitato le distillerie cercando di rispondere in maniera meno superficiale alla domanda già citata: «Cosa rende speciale il whisky giapponese?». Ecco, la risposta, al di là delle tecnicalità già enumerate, sta in qualcosa di più profondo, ovvero nell’approccio filosofico diverso.

Se lo Scotch impone la sua complessità e il suo carattere forte al mondo, il whisky giapponese nasce in armonia con la natura che lo circonda, per andare incontro ai palati delicati, alla fine di un processo creativo e artistico. “Shirofuda”, il primo imbottigliamento di Suntory, era stato un fallimento proprio perché troppo scozzese. Da qui, tutti i suoi successori nascono diluiti, rinfrescanti, per accompagnare cibi più fini dell’haggis.

In sostanza, il whisky giapponese è un prodotto culturale, che mette il palato davanti allo stile. Per questo la texture è così importante. Spesso la cucina giapponese unisce elementi per ottenere diverse consistenze, dal croccante al viscido al soffice. Altrettanto, nel whisky i distillatori ricercano il sorso avvolgente tanto quanto il sapore, mentre in Scozia comanda sempre il gusto.



Shibui

Un altro concetto fondamentale per entrare nell’anima del whisky giapponese è lo Shibui, ovvero la sensazione soggettiva generata da una bellezza semplice, sottile e discreta. Si ricerca la trasparenza, la bellezza del minimale, in una naturale predisposizione all’understatement. Illuminante un aneddoto: Yamazaki è fondata esattamente dove nel sedicesimo secolo si ergeva la Tai-an, la prima tea-house del Giappone dove nel XVI secolo il sacerdote zen Rikyu canonizzò la cerimonia del tè. Rikyu eliminò gli eccessi e le ostentazioni decorative, per tornare al nucleo, al tè servito con gesti posati in coppette semplici. Tutta l’estetica giapponese fino alla purezza del whisky di oggi discende da lui.



Kaizen

Secondo caposaldo che permette di capire come lavorano i distillatori giapponesi: Kaizen è il miglioramento continuo, il labor limae, la ricerca di un lento e inesorabile perfezionamento, tramite la cura ossessiva del particolare. Se la stella polare degli scozzesi è la consistency, cioè il tentativo di avere sempre lo stesso profilo aromatico nei secoli dei secoli, i loro colleghi del Sol Levante vivono il whisky come una tradizione vivente, e dunque in continua evoluzione: la tradizione di oggi è l’innovazione di ieri. Ecco perché gli stessi imbottigliamenti giapponesi variano nel tempo in maniera molto più considerevole rispetto ad esempio a un Glenfiddich o un Lagavulin.



Accettare i limiti, limitare il controllo

L’ultimo punto filosofico peculiare dell’approccio giapponese al whisky è l’accettazione dell’imponderabile. Siamo abituati a pensare alla perfezione ingegneristica nipponica in termini freddi, come a una popolazione ossessionata dal controllo. È così solo in parte. L’idea è quella di misurare millimetricamente ogni gesto, ogni dato, ma solo fino a quando è possibile. Dopo, quando il potere passa al fuoco, al legno, all’acqua o al caso, il segreto è affidarsi. Accettare la possibilità, come elemento fondante del processo creativo e artigianale, che poi altro non sono che la metafora della vita e della natura. Quindi, creazione (non “produzione”, come in Scozia) del whisky curata in ogni dettaglio, ma poi chissà cosa farà l’alambicco, chissà come influirà il barile. Come diceva Taketsuru: «La produzione del whisky è un atto di cooperazione fra la benedizione della natura e la saggezza dell’uomo».



Nikka, un operaio a lavoro sulle botti

La giungla dietro il paradiso

Fin qui le affascinanti idee intimamente connesse con la cultura giapponese che sono alla base dello stile del whisky. Però, non è tutta ambrosia quella che si versa. Esiste infatti un tema piuttosto serio di disciplinare che in questi ultimi anni sta facendo discutere. Al contrario del ferreo regolamento della Scotch Whisky Association, in Giappone le regole sono così lasche da creare equivoci importanti. Per esempio, sia il whisky prodotto in patria, sia quello importato, possono essere assemblati e regolarmente venduti con la dicitura “Japanese whisky”. Teoricamente, gli oltre 1.4 milioni di litri di blended importati ogni anno dalla Scozia potrebbero perfino essere rivenduti come whisky giapponese. E il fatto che molte distillerie britanniche (Ben Nevis, Tomatin, Bowmore) siano di proprietà nipponica contribuisce alla tentazione. Il risultato è che spesso il consumatore, che si trova in mano una bottiglia dalla splendida etichetta in carta di pregio, impreziosita dagli ideogrammi, si illude di bere distillato giapponese, mentre sta degustando spiriti provenienti in bulk dal Canada, dagli States o dall’Europa. Non esattamente la trasparenza ricercata con concentrazione zen dai distillatori.

Solo recentemente, dunque, come spiega il grande appassionato ed esperto Alessandro Coggi, i marchi storici hanno iniziato a preoccuparsi e hanno aderito a un disciplinare più serio, che è stato finalmente adottato dalla Japan Spirits & Liquor makers association nel 2021, ma che entrerà ufficialmente in vigore il 31 marzo 2024. Da quel momento in poi, i requisiti per chiamarsi Japanese whisky dovranno essere: fermentazione e distillazione in una distilleria giapponese, acqua proveniente da una fonte giapponese, utilizzo di soli cereali maltati, invecchiamento (su suolo giapponese) di almeno tre anni e imbottigliamento in Giappone con almeno 40% di gradazione.



Per Spirito Autoctono un viaggio non si conclude mai senza qualche buon assaggio. Preparate i calici per la prossima puntata.

Classe 1982, è cresciuto a Cremona ma a Milano è nato, si è laureato, vive e lavora come giornalista: in sostanza, è fieramente milanese fin nel midollo. Proprio come il risotto. Quando non si occupa di cose più serie ma più noiose, scrive di distillati: ha collaborato con scotchwhisky.com, fa parte della squadra di whiskyfacile.com e tiene la rubrica settimanale “Gente di Spirito” sul Giornale, di cui è vicedirettore dal 2017. Forse in gioventù ha letto troppo, e così si è convinto che solo gli alambicchi non mentano mai e che da lì esca la vera anima degli esseri umani.

Potrebbero interessarti