“Lo Scotch migliore si fa in Giappone” – vol.2

Tra cereali fermentati e alambicchi di ogni sorta, la seconda tappa del viaggio di Spirito Autoctono scende nel cuore del whisky giapponese, alla scoperta delle sue “3W”
L’eredità scozzese

Tecnicamente, come più di un esperto sussurra da anni, «lo Scotch migliore si fa in Giappone». Nel senso che i metodi produttivi sono stati imparati, copiati e riprodotti. E – spoiler – perfino migliorati. Piccolo angolo da nerd: il whisky giapponese (scritto senza la “e” che si utilizza per i distillati americani) nasce come quello scozzese. Si fanno fermentare i cereali (orzo per il single malt, ma anche grano e potenzialmente riso, sorgo, avena…) e il risultato – una sorta di birra – viene sottoposto a distillazione discontinua in due alambicchi di rame. Poi, viene imbottato e lasciato a maturare.

Era così quando Masataka Taketsuru tornò da Glasgow con i suoi appunti, ed è così anche oggi. Anzi, a dire il vero le distillerie giapponesi per alcuni aspetti sono rimaste ancor più tradizionaliste e in buona parte utilizzano ancora il fuoco diretto per riscaldare gli alambicchi, mentre in Scozia, per standardizzare il procedimento, si è optato anni fa quasi ovunque per le serpentine ad aria calda. Ma oltre a questo, le differenze esistono. E sono state volute e cercate, non sono capitate per caso né per incapacità o errore.



La “via giapponese”: orzo e alambicchi

Inevitabile partire dalla materia prima del whisky, l’orzo. La prima varietà utilizzata in Giappone è ovviamente quella locale, Nijo omugi, che però si dimostra presto inadatta, con una resa scarsa. Ecco dunque spiegata la scelta – che perdura fino ad oggi – di importare l’orzo, in gran parte dalla Scozia, che lo manda anche già torbato.

Dopo la materia prima, giusto parlare dei ferri del mestiere, cioè gli alambicchi. Mentre le distillerie scozzesi hanno coppie di alambicchi (il wash still e lo spirit still) simili per forma, così da ottenere aromi definiti, le distillerie giapponesi possono avere alambicchi diversissimi fra loro: i classici pot-still, ma di ogni tipo di foggia, alambicchi a colonna, caldaiette a bagnomaria, colonne Coffey… L’idea è che ogni master distiller deve avere tutti gli strumenti per ottenere un range il più possibile ampio di profili aromatici. Il che moltiplica a dismisura le potenzialità espressive.



Alambicchi alla distilleria Yoichi

Le “3W”

La domanda «cosa rende speciale il whisky giapponese?» è ampia quasi quanto i grandi dilemmi della storia del pensiero, da “perché esistiamo?” a “perché appena scopri un whisky che ti piace, quello raddoppia di prezzo nel giro di sei mesi?”.

Spesso si dice che la risposta sta nelle cosiddette “3W” – che sono comunque meno delle cinque che ogni giornalista deve infilare nei suoi articoli – Le elenchiamo: water, wood, weather. Ossia acqua, legno e clima.

L’acqua è fondamentale in Giappone come in Scozia, perché il whisky è un liquido e l’acqua serve in ogni singola fase della produzione, eccetto l’invecchiamento. Le distillerie giapponesi sono costruite a una certa altitudine e vicino a sorgenti d’acqua. In particolare, seguendo l’esempio di Yamazaki, si cercano fonti di acqua morbidissima, senza minerali, eccellente per qualità e purezza. Cosa che per i chimici è alla base del palato vellutatissimo di molti single malt giapponesi. Inoltre, l’acqua è un elemento che nella cultura nipponica gode di una assoluta reverenza. Non è un caso che il cocktail simbolo del whisky giapponese sia il Mizuwari, ovvero “tagliato con l’acqua”: nel drink, una parte di whisky e due di acqua ghiacciata, tutto si basa sull’armonia dell’acqua, appunto.



La preparazione del Mizuwari

Il legno, ovvero i barili, è fondamentale per un’altra ragione: nel legno il whisky passa il 99% della sua esistenza. Le prime botti utilizzate in Giappone da Shinjiro Torii sono quelle che contenevano i suoi vini di sherry. Poi, durante la Seconda Guerra Mondiale, a causa della chiusura delle frontiere, si iniziano a fabbricare barili con legname locale. In particolare, si utilizza il Mizunara, legno dalla varietà di rovere Quercus crispula, che cresce soprattutto nelle foreste del Nord. Gli alberi non crescono dritti, il legno è poroso e difficile da lavorare e i barili subiscono grande evaporazione, ma conferisce al distillato note uniche, che ricordano l’incenso. Raro e costosissimo, questo legno può essere usato solo se la pianta è secolare.

Il clima. Mentre in Scozia esistono di fatto solo due stagioni (caldo-umido e freddo-umido), in Giappone la variabilità meteorologica è più evidente. Il che influisce sull’evoluzione del whisky, contribuendo a un profilo più variegato e meno spigoloso.



Uno scatto dalla distilleria Miyagikyo

Nella terza tappa del viaggio si scende ancora più in profondità. Una lezione di filosofia…

Classe 1982, è cresciuto a Cremona ma a Milano è nato, si è laureato, vive e lavora come giornalista: in sostanza, è fieramente milanese fin nel midollo. Proprio come il risotto. Quando non si occupa di cose più serie ma più noiose, scrive di distillati: ha collaborato con scotchwhisky.com, fa parte della squadra di whiskyfacile.com e tiene la rubrica settimanale “Gente di Spirito” sul Giornale, di cui è vicedirettore dal 2017. Forse in gioventù ha letto troppo, e così si è convinto che solo gli alambicchi non mentano mai e che da lì esca la vera anima degli esseri umani.

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