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Mandarin Garden, il giro del mondo in 11 cocktail

Guglielmo Miriello e il suo team hanno concepito una nuova drink list ispirata al romanzo di Jules Verne, “Il giro del mondo in 80 giorni”

Londra e ritorno. E in mezzo tanta avventura. E, soprattutto un inedito viaggio multisensoriale e ricco di rievocazioni suggestive e memorabili. Un obiettivo non da poco quello che si sono posti Guglielmo Miriello e la brigata di barman del Mandarin Garden di Milano. Una drink list dal titolo “Il Giro del Mondo in 11 drink”, ispirata al romanzo di Jules Verne, “Il Giro del Mondo in 80 Giorni”. D’altra parte, al bancone del bar del Mandarin Hotel ogni giorno, ogni sera, grazie ai clienti provenienti da tutto il mondo, tra una chiacchierata e l’altra si compie un viaggio virtuale intorno al mondo. La nuova carta dei signature cocktail sarà a lungo disponibile, perché non si possono consumare tutti gli 11 drink in una volta. Hai voglia a dire: «Ancora un giro». Meglio tornare a più riprese, snocciolando una o più tappe del viaggio nel tempo.

Nell’intervista a Spirito Autoctono, Guglielmo Miriello racconta “Il Giro del Mondo in 11 drink”.



Guglielmo Miriello (secondo da sx) e il suo team

La nuova drink list di Mandarin Garden ha una chiara ispirazione letteraria. Che rapporto c’è tra mixology e letteratura?

«Il cocktail è cultura, come l’enogastronomia. Il cocktail è storia, parliamo di origine che risalgono almeno a 250 anni fa».

E la scelta del tema del viaggio a che cosa s’ispira?

«Anche qui uniamo letteratura e avventura. “Il giro del mondo in 80 giorni” di Jules Verne compie infatti quest’anno il su 150° anniversario. Abbiamo quindi scelto 11 momenti salienti del libro a cui facciamo corrispondere altrettanti nuovi cocktail».

Undici drink e non quindici, come le tappe compiute da Phileas Fogg e dal suo cameriere Jean Passepartout…

«Sì, perché il numero 11 è significativo per il Mandarin: 11 sono i pilastri che ci guidano nella soddisfazione dell’ospite e 11 sono anche le lame del nostro ventaglio».

Il vostro “viaggio” da dove parte?

«Partiamo ovviamente da Londra e dal Reform Club, che è il luogo nel quale viene lanciata la sfida della avventura di compiere il giro del mondo. E il primo cocktail in carta ha proprio questo nome. Seguono quindi i drink ispirati alle tappe successive, dal Canale di Suez, a Hong Kong, a San Francisco ecc.».

Quindi sono anche tappe, per così dire, sensoriali.

«Esatto. Abbiamo ragionato su come parlare di un luogo specifico, non solo riguardo agli ingredienti, ma anche nel modo in cui compiere un rituale di servizio. Per esempio, quando Fogg attraversa la giungla in India, abbiamo pensato a una serie di elementi che richiamassero quel che ha visto, ascoltato, annusato, gustato durante quel viaggio. Quindi abbiamo immaginato il sottobosco, il legno, la complessità dei profumi. Mentre in Giappone ci troviamo di fronte a un film differente. Lo abbiamo interpretato pensando all’essenza del luogo. Il cocktail in questo caso esprime l’essenzalità, l’eleganza, la raffinatezza con evidenti tratti orientali».

La tua idea di cocktail, correggimi se sbaglio, è concepita come un’esperienza multisensoriale. Forse manca solo il senso dell’udito.

«L’altro giorno un ospite beveva il Kioumi e mi diceva: “se avvicino il cocktail sento anche un ruscello”. In realtà era l’effetto del ghiaccio secco, che sciogliendosi provocava quel suono. Per me l’esperienza multisensoriale è importante. Non solo il gusto, ma la vista, il tatto (vedi la scelta dei bicchieri), l’olfatto a cui leghiamo i nostri ricordi, cerchiamo sempre di far vivere un momento memorabile».



Il cocktail Reform Club

Forse questa nuova carta nasce anche dal fatto che il Mandarin Garden si trovi in una città, tra le più internazionali d’Europa e che qui passino turisti, uomini e donne d’affari provenienti da tutto il mondo. Non so se avete in questo breve tempo già avuto esperienza, grazie a una carta che rievoca luoghi tanto distanti, delle reazioni particolari da clienti stranieri.

«Quello che abbiamo potuto vedere negli occhi degli ospiti, a parte una certa sorpresa, ma anche molta gioia, perché come è capitato con un cliente, aveva trovato il cocktail giusto (Il Golden Gate) per ricordare ad esempio i suoi anni vissuti a San Francisco. E una cosa simile mi ha detto un altro ospite in riferimento al cocktail londinese».

L’ispirazione al passato e la tua idea di miscelazione contemporanea.

«I classici hanno importanza, anche come ponte tra passato presente. Da qui si può partire per creare nuovi twist con un tocco originale, rivisitando, aggiungendo, sostituendo e sottraendo. Per me la miscelazione contemporanea è un modo evoluto di creare cocktail, che significa, tra l’altro, strizzare un po’ l’occhio alla tecnologia. Tendiamo a utilizzare tutti quegli strumenti che consentono di realizzare misture alcoliche sempre più pulite al palato, equilibrate, con ingredienti di diversa texture, anche ricorrendo a ingredienti di natura solida, ma che oggi il bartender è capace di trasformare in un liquido, un cordiale. Oggi in un bar possiamo fare uso di estrattori, centrifughe per nettare un liquido ecc. Possiamo pertanto ottenere cocktail al naso e al palato più ricchi, intensi e profondi. Ma senza trasmettere pesantezza. Come succede nelle cucine, oggi siamo anche in grado di realizzare tanti prodotti home made».

Quali sono i principi guida per un bartender che lavora in una realtà quale il Mandarin?

«Prima di tutto trovare ogni volta la chiave giusta per soddisfare l’ospite. E da lì andare a costruire l’offerta ad hoc. Anche nella stesura di una lista cocktail, i principi guida si basano sul momento storico in cui ci si trova, capire il gusto attuale, il luogo in cui ci troviamo, studiare gli ingredienti sulla base dei gusti del momento, non solo a livello locale, ma soprattutto, visto il nostro contesto, globale. Per esempio, quando proponevi il gusto dello zenzero 15 anni fa, i nostri Moscow Mule tornavano quasi tutti indietro. Possiamo cercare di essere un piccolo passo avanti, lavorare più sui trend del futuro prossimo, che di quello remoto».



Qual è la tua idea rispetto al trend dei ready to drink, dei pre-batched e dei cocktail alla spina?

«Io li trovo molto interessanti e innovativi, ma vanno anche contestualizzati nella tipologia di bar. Per esempio in uno street bar il drink alla spina ci sta anche. Rispetto ai pre-batched, ci sono certamente cocktail che abbiamo anche noi in carta, che lo stesso processo di preparazione ti obbliga a una preparazione lunga, per la chiarificazione ecc., pertanto l’equilibrio del cocktail non si ottiene immediatamente. Come quando tiri fuori dal forno una torta appena cotta. Ci vuole del tempo prima di consumarla al meglio. Vedi il Milk Punch. Altro vantaggio è la possibilità, durante un evento con tanti ospiti, di standardizzare una ricetta, in modo che per ognuno sia sempre uguale».

Tre tappe tre cocktail. Le ricette


Carnatic, Hong Kong – Yokohama
Un tramonto esotico accompagnato da Gin Roku, Vermouth Sakura Mancino, cordiale alle foglie di kaffir (home made), due gocce di patchouli. Servito in una rice cup giapponese.



Passepartout, Yokohama
Praticamente è un milk punch, pertanto pre-batched. «Usiamo la tecnica del milk washing, con latte di capra unito a tutti gli ingredienti, che serve a chiarificare tutti i colori». Gli ingredienti sono: Nikka from the Barrell, tè oolong, ananas tostato e spezie, Vetiver Muyu, Peychaud Bitter, lattosio. Garnish, meringhetta alla fava tonka. Servito in bicchiere tumbler.



Phileas, London – Suez
Lasciata Londra, si gusta un drink che sa di mediterraneo e oriente. Gli ingredienti: O’ndina Gin, pepe di Timut, Americano rosa Cocchi, acqua di fragole, Orange flavour.

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