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Roby Marton: “E adesso Bitter, vegano!”

Lo storico produttore di Treviso, tra i pionieri della new wave del gin italiano,ci racconta il suo bitter vegano base radicchio e ragiona sul futuro del movimento.

È partito ormai 10 anni fa, con un’idea e lo slancio dei neofiti. E oggi Roby Marton è il produttore di gin artigianale probabilmente più conosciuto in Italia.

Nel frattempo Roby (al secolo Roberto Marton) con il suo compare Luca Grilletti ha lanciato il guanto di sfida anche su altri segmenti di mercato – il bitter in particolare sarà il prossimo successo annunciato – e per il gin commerciale puntano sugli aromatizzati.

Oggi il mondo è cambiato e il gin è esploso con i crismi di una moda, mentre gli spiriti italiani si affermano nel Belpaese e oltre confine. Che ne sarà di questo movimento? Marton è allo stesso tempo ottimista e realista, mentre oggi punta tutte le sue carte sui tre bitter base radicchio che sta lanciando sul mercato, con cui è sbarcato a New York spinto dalla certificazione veg.

E in questa intervista a Spirito Autoctono vede in prospettiva meno immagine e più sostanza.



Roby, quando siete partiti la “moda” dei gin in Italia non era ancora scoppiata…

«La movida del gin non c’era, mi sentirei di dire che siamo stati tra i primi in assoluto. In quel momento c’era Valle Ombrosa – che è sempre stata nel gin, perché c’erano i frati che lavoravano il ginepro – e poi c’erano quei 4 o 5 gin che facevano in bottiglioni per le discoteche. Poi uno che c’era sicuramente e lavorava nella liquoristica era Zu Plun, un trentino. Per il resto era un deserto. Oggi sul mercato ci sono oltre 2mila etichette, ma le distillerie vere e proprie sono una ventina e molte lavorano in private label. Noi, oltre ad avere il label, abbiamo anche una distilleria a Romano d’Ezzelino, che una volta distillava grappa».

Siete partiti come private label o anche con la distilleria?

«Siamo partiti con la distilleria a bordo, perché già prima si produceva un liquore di liquirizia in questa distilleria. All’inizio ovviamente era un rapporto di collaborazione, ora è totalizzante. Se domani mattina fermiamo la produzione, la distilleria cessa di esistere. L’ho tenuta separata per salvaguardare la loro professionalità. I distillatori sono bravissimi e infatti la ricetta siamo andata a crearla lì, insieme a Luca. Loro di gin non capivano nulla e noi gli abbiamo costruito la formula».

Come nasce il Roby Marton originale?

«È un cold-compound. Dopo la distillazione del ginepro, sceglievamo le spezie e le mettevamo dentro ai fusti di acciaio per un mese, lasciando che l’alcol tirasse fuori le essenze, i profumi. Questo ha dato al nostro gin un carattere molto particolare. E la cosa più bella è che, in realtà, il nostro gin non è mai uguale a sé stesso perché essendoci la natura che lavora nell’estrazione, a seconda di come sono le spezie che aggiungi e anche di piccole variazioni nelle proporzioni il risultato cambia».



Dunque rimane coerente con la ricetta, ma non identico in quanto è un gin artigianale?

«Esatto. Perché c’è la natura che lavora. A volte capita che sia un po’ più scuro, a volte un po’ più opaco perché facciamo una microfiltrazione, una cosa leggera. E poi nel tempo abbiamo fatto delle variazioni. All’inizio mettevamo l’anice stellato, poi ci sembrava troppo invadente e siamo passati ai semi d’anice. Dopo averlo reso più preciso per avere la reazione che volevamo dal mercato, abbiamo fatto altre due versioni oltre alla ‘Limited’, con cui quest’anno a San Francisco abbiamo vinto le due medaglie d’oro. Abbiamo fatto una versione White Label, nata da un errore. Ogni tanto in distilleria i fumi dell’alcol ti distraggono e quella volta abbiamo aggiunto due volte le botaniche col compound, ottenendo come risultato un’estrazione doppia: era così scuro che sembrava quasi un amaro. Ci siamo guardati: lo buttiamo via? Lo allunghiamo? Invece non era male per nulla. Chissà che non fosse stato il destino… Allora lo abbiamo messo in commercio: è per una nicchia di mercato, ma adesso fa il 10% della nostra produzione. Poi è arrivato High Proof spingendo al 55% di grado alcolico, perché a mio avviso per i grandi appassionati un po’ di alcolicità in più dà maggior consistenza al gin tonic».

Però avete scelto di non arrivare al Navy Strenght. Perché?

«No, abbiamo scelto un High Proof, appunto. Arrivati al 55% il mio palato ha trovato l’equilibrio. Alla fine è una questione di scelta se arrivare fino al Navy, ma mi sembrava che 55 fosse già una buona gradazione e non esagerata. Visto il successo del Proof, il 55 l’ho riportato anche nel FiftyFive, la limited edition che ci ha portato i riconoscimenti più importanti al The San Francisco World Spirits Competition (SFWSC), la più autorevole competizione su scala mondiale per gli spirits».

Una gran bella soddisfazione. Come è andata?

«L’iscrizione alla Competition costa quasi dieci volte la fee degli altri, ma questo non scoraggia i produttori che vogliono esserci perché è la manifestazione numero uno. È anche la più difficile. E infatti, quando abbiamo partecipato nel 2017, pensavo di andare là e vincere e invece ho preso una misera medaglia di bronzo. Però ho capito come funziona: i giudici sono tutti americani e anglosassoni, e sono abbastanza estremi. Per loro ginepro è ginepro. E allora abbiamo creato la FitfyFive e lì non c’è stata storia. Abbiamo preso la Double Gold, un riconoscimento riservato a pochissimi».

Come avete lavorato per la FiftyFive? E il nome è legato solo alla gradazione?

«In realtà di chiama FiftyFive non perché ha 55 gradi, anche se li ha, ma perché nel 2020 ho compiuto 55 anni e per fare quel prodotto ho cambiato totalmente il modo di lavorazione. Ho spinto su una doppia distillazione: prima un passaggio in compound e dopo ho ridistillato con l’alambicco. Ecco, adesso il ginepro è all’ennesima potenza. Andando a distillare direttamente il ginepro ti esce una resina».



Dato che voi siete stati dei pionieri, come vedete oggi lo scenario per il gin e per gli altri spirits?

«Il gin la sta facendo da padrone perché è arrivato ai bassifondi. L’altro giorno ero in un bar davanti all’ospedale e c’erano sei tipi di gin. In ogni bar ci sono un Tanqueray, spesso ci sono Hendrick’s e Gin Mare, che sembrano aver vinto la sfida. E poi ci sono due o tre gin che non sono da grande mercato».

C’è chi dice che il gin non può continuare all’infinito in questa fase esplosiva…

«Sicuramente implode. Anzi, sta già implodendo. Con Eleven Trade, la società di distribuzione che cura le nostre ma anche altre referenze, sto eliminando molti gin. Anche il mio principale “compagno”, che è Gin Primo, è in flessione. Fino a qualche tempo fa ogni nuovo gin era una curiosità da provare per i barman, adesso lo scaffale è pieno e declinano».

Quindi come è l’orizzonte da qui a 5 anni per il mondo del gin?

«Decimato. Nel senso che il gin sta ancora andando bene, ma è arrivato il punto in cui non ha più senso fare marchi nuovi. Verranno decimati i marchi. I consumi magari ci saranno, ma sparirà un sacco di sottobosco».

E secondo voi la tendenza è quella per cui emergerà di più chi è anche distillatore?

«Sicuramente sì. Ma vedrai che alla fine vince il gin normale, che ha un rapporto qualità-prezzo che può adattarsi alla tasca, che può esser utilizzato per lavorare e che è di grande qualità. Noi vediamo già adesso che c’è uno spostamento. Adesso un nuovo mercato chiede lo speziato, gli aromatizzati e noi con il Big Gino stiamo facendo l’exploit. Ad esempio proponiamo il gusto della frutta col piccante e le ragazze vanno via di testa. È molto femminile. Le stesse ragazze che una volta ‘che schifo il gin tonic’, adesso invece ‘mi faccio un bel gin tonic’. Ecco un fenomeno».

Voi siete il primo o tra i primissimi per anagrafica, ma forse anche il più grande in termini di artigianato?

«Artigianale secondo me sì. Sono sicuro di essere il più forte in Italia, ma so che alcuni produttori stanno vendendo molto bene negli Stati Uniti o in UK».

E voi quanto fate di export?

«Pochissimo, incide forse per il 10%. Negli Stati Uniti sono solo a New York, per dire. Non abbiamo spinto molto sul commerciale e io non scendo a compromessi con il Roby Marton, che costa più del doppio di molti gin presenti nelle bottigliere. In fondo i miei numeri li faccio. Perché dovrei andare a fare 300mila bottiglie, entrando poi in un meccanismo che fa volumi e poco valore?».



Siete sbarcati anche nel mondo vegan, vero?

«Siamo Vegan sul bitter. Siamo usciti con il primo bitter a base di radicchio, ho la produzione diretta della materia prima a chilometro zero. Col bitter sto già facendo molto bene».

Come è nata l’idea?

«Il bitter è stato un colpo di culo. Io sono sempre stato produttore di radicchio, ma mi ha aperto gli occhi l’esperienza di Giuliano Tonon. Lui faceva un aperitivo col radicchio che si chiama Divo Rosso, ma lo faceva tipo Aperol, un liquore, a bassa gradazione, dolce, con colori finti. Convinto che fosse un prodotto buono, ma sbagliato per le caratteristiche del radicchio, ho voluto fare il bitter, quello mio, in cui ho messo un ringraziamento a lui perché mi ha dato l’idea. È impressionante perché stiamo esplodendo, conta che lo vendo a tre volte il prezzo del Bitter Campari, per cui si posiziona altissimo per professionisti dell’hotellerie o dei bar che non vogliono coloranti, che vogliono tutto bio e vegan…».

Avete la certificazione?

«Certo, mi costa 1 euro a bottiglia. E deve comprendere tutto: dal vetro all’etichetta, dalla colla… al bitter dentro la bottiglia!».

E questa è una scelta vincente?

«È vincente, anche se il mercato non è facile. Il prezzo di partenza del mio bitter è 27 euro, contro il Bitter Campari che è meno della metà. Quello ha i colori mentre il mio non ha colori, il mio fa una schiuma naturale, e non ci sono allergeni; siamo vegan perché tutta la filiera è controllata. E poi ho investito nel packaging, nel tappo e non ultimo siamo usciti con un bicchiere fighissimo… Te la faccio breve: nel gin ci saranno 200mila brand nel mondo, a livello di bitter ho un solo competitor che è Campari, perché quasi tutti quelli che hanno fatto bitter hanno preso la linea Campari».

Vendi per la storia del radicchio o perché veg?

«Si innamorano perché dentro i tre bitter Rabitt c’è uno storytelling molto bello. Il nome suona come ‘coniglio’, ma in Ra-bitt c’è la sintesi di ‘radicchio bitter’. E poi ho messo il coniglio perché mangia il radicchio, è il mio acerrimo nemico nel campo».

Il vegan è stato utile per il mercato?

«All’estero sicuramente. Ho iniziato adesso e New York ha abboccato subito. È un mercato a sé, sono molto più veloci a rcepire il messaggio».



What’s next?

«Tequila. Adesso il mondo gira sulla tequila. Per noi però, per ora, il next è il nostro extra bitter, che ha poche settimane».

Quali sono tre parole che ti sintetizzino l’anima di Roby Marton?

«Tradizione per prima, perché c’è una tradizione italiana nelle mie bottiglie, anche se dall’aspetto estetico non si vede. E poi vorrei anche innovazione, perché cerco sempre di innovare (come è avvenuto con il compound). Infine passione smisurata».

Di tutte le cose che fai qual è per te il prodotto a cui sono legati i tuoi ricordi?

«Rabitt è il predestinato, perché c’è tutto: produco io il radicchio, c’è uno storytelling molto più forte, anche la bottiglia, c’è il nome. Mi ci riconosco di più». (GM)

Dopo qualche divagazione tra Nietzsche e Wittgenstein, è tornato a Epicuro. E così scrive di vino, sapori e spirits, di viaggi, di teatro e danza. Veneziano, fa base a Praga. Ama il whisky scozzese e le Dolomiti.

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