Sagna Spirito Autoctono

Carlo Alberto Sagna: spirits, segmento di mercato ancora in espansione

Intervista a Carlo Alberto Sagna (direttore commerciale Sagna) che evidenzia un’evoluzione del mondo mixology e un traino per gli spiriti autoctoni. Oltre a un bel dinamismo dei produttori italiani

Autoctono o non autoctono? E ancora, italiano o internazionale? Queste sono le domande. Se sia più nobile mantenere la linea dei grandi spirits dal profilo internazionale o imbracciare l’arma dell’italianità per surfare sulla moda del piccolo e bello. Nella giocosa parafrasi di Shakespeare si nasconde in realtà un interrogativo che oggi coinvolge i distributori italiani di wine & spirits, per i quali l’importazione di brand di peso su scala globale è un canale consolidato, mentre il segmento emergente è quello degli spirits made in Italy.

Con la diffusione di una cultura curiosa tra i bartender di nuova generazione e soprattutto con l’evoluzione del consumo verso una minore standardizzazione, i brand artigiani nel mondo spiriti stanno attraendo l’attenzione di media e pubblico. E i distributori si trovano ad ampliare – progressivamente, eppure inesorabilmente – la gamma di referenze che fino a qualche tempo fa potevano esser considerate una nicchia.
Dal confronto con Carlo Alberto Sagna, direttore commerciale dell’omonima azienda di famiglia Sagna, emerge un quadro articolato e in evoluzione.



“I brand artigiani nel mondo spiriti stanno attraendo l’attenzione di media e pubblico”

Sagna, cosa significa autoctono nel mondo degli spirits? E autoctono italiano?
«L’Italia primeggia per ricchezza ampelografica, una caratteristica che prima di aver contribuito – quasi imposto – a realizzare studi e approfondimenti, ha portato alla salvaguardia di veri e propri patrimoni culturali del nostro Paese. L’economia di molti centri rurali, zone viticole e agricole, è basata su prodotti cosiddetti locali, tipici. La crescita di questa tipologia di produzioni verticali si vede da una decade sia nell’ambito food che nel vino. E più recentemente anche negli spirits, dove le produzioni di grappe, amari e gin si sono intensificate materializzando in forma liquida areali, famiglie e ricette storiche. Per autoctono s’intendono prodotti di un luogo specifico, interpreti di tradizioni, di gusti. Di origini. Ne sono un esempio la Grappa Levi e i Cognac Delamain».

È un fenomeno che davvero ha sostanza, ovvero è solo una bolla?
«Forse nessuno dei due. Si è venuto a creare un vero e proprio segmento di mercato che ad oggi non ha ancora raggiunto il suo massimo livello di espansione. Se prendiamo in esame qualche spirits specifico, con gli amari siamo appena entrati nella fase di crescita, mentre il mercato dei gin potrebbe sembrare decisamente più maturo – se non saturo – ma in realtà non si registra un arresto in termini di nuove referenze immesse nel mercato. Il vermouth appare più stabile e costante – forse grazie all’onda di iconici drink quali Negroni e Americano tornati in auge negli ultimi anni – dato che come prodotto ha la capacità e il vantaggio di farsi apprezzare anche tal quale».


 


“Per autoctono s’intendono prodotti di un luogo specifico, interpreti di tradizioni, di gusti. Di origini.”

Qual è il peso degli spirits italiano nel vostro portafoglio?
«Il core business è nettamente incentrato su Champagne e vini, sebbene distillati e spirits siano sempre stati presenti nel nostro catalogo. Tra le nostre politiche aziendale c’è l’esclusività, garantita a ogni produttore che opera in una determinata denominazione, regione o dipartimento. Non è difficile comprendere come non sia possibile uno sviluppo ‘orizzontale’ di gin o grappe, ad esempio. Per ogni tipologia di prodotto selezioniamo un solo fornitore per rappresentarlo al meglio nell’horeca, nostro principale canale di riferimento. Per questi motivi, il peso degli spirits è inferiore a quello dei vini, rappresenta circa il 10-15% del fatturato. È nostra volontà aumentare i volumi, affiancando a un lavoro di formazione sui prodotti per la rete vendita quello di divulgazione degli stessi, tramite approfondimenti e pubblicazioni nelle riviste del settore».

Perché? Ci credete?
«Grappe, armagnac, cognac ma anche rhum e gin sono prodotti con storie e savoir faire sartoriali, da preservare prima che raccontare, che affascinano sempre i clienti. Anche nei più giovani, grazie alla curiosità, notiamo una aspirazione al meglio, apprezzando distillati più complessi come quelli che proponiamo».



Esiste una cultura degli spiriti italiani tra i bartender e nell’ho.re.ca in generale?
«Sta crescendo, da un lato grazie ad una maggiore e veloce capacità d’accesso alle informazioni e dall’altra grazie ai corsi di formazione e testi di divulgazione scritti da figure diventate oramai punti di riferimento per i barman – si pensi a Fulvio Piccinino, Luca Picchi, Samuele Ambrosi e Luca di Francia».

Come si evolverà il settore?
«La figura del barman è cambiata: da lavoro per arrotondare durante gli studi, oggi è appannaggio di un vero e proprio professionista. La presenza di un barman diventa uno dei principali motivi per andare in un determinato locale. Al bartender di oggi sono richieste competenze manageriali, savoir faire nell’accoglienza, creatività, conoscenza delle lingue e dei prodotti. I cocktail bar sono diventati dei modelli imprenditoriali che fanno i conti anche con i processi produttivi che cambiano e il sentito tema della sostenibilità; c’è un’attenzione sempre più alta verso la qualità del prodotto che influisce necessariamente nel drink finale. Nella concezione di una cocktail list si nota altresì una ricerca food più sofisticata; la ristorazione e la mixology hanno sempre più elementi comuni, a partire da una contaminazione continua fatta di ricerca e di concretezza degli ingredienti, che si inseriscono nei piatti e nei drink per vere esperienze ‘pensate’ di pairing».



Quanto vale (dal vostro punto di vista) in termini di numeri ed economie questo new deal?
«Sebbene la nostra società sia principalmente orientata all’importazione e distribuzione di Champagne e vini di pregio, il nostro portafoglio annovera anche numerosi spirtis e prodotti dedicati alla mixology che, pur non rappresentando il core business dell’azienda, riscuotono sempre più successo, dai due gin Panarea ai rhum agricole della Martinica».

I produttori hanno saputo coglierne la portata?
«Nel nostro catalogo abbiamo alcune case che negli anni hanno deciso di ampliare la propria offerta proprio in seguito a un crescente interesse da parte del mercato, curioso e aperto ad accogliere diverse tipologie sia di gin che di vermouth. Al gin Island, incentrato su mirto e bacche di ginepro, l’azienda Panarea dei fratelli Inga ha deciso di affiancare un gin più morbido, il Sunset, in cui spiccano le note di basilico e infine il Gran Milano, un bitter che si stacca rispetto agli altri (e dal leader del mercato) per un colore più acceso e una maggiore gradazione alcolica. Antica Torino, giovane realtà piemontese che da subito si è imposta nel mercato con un Vermouth di Torino Rosso dal grande equilibrio, ha presto iniziato a produrne altre tipologie quali Bianco e Dry, accanto a un amaro e, più recentemente, a un Vino Chinato».

Vale la pena spingere su referenze sempre nuove?
«Vale sempre la pena di puntare su referenze in cui si crede, e che si sono selezionate. Siamo attenti ai trend di mercato e aperti a valutare l’inserimento in catalogo di nuovi prodotti realizzati dalle case con cui collaboriamo, talvolta da decadi. L’aspetto più importante deve essere la qualità: la nostra società si è sempre contraddistinta per la selezione e distribuzione di eccellenze».

Dopo qualche divagazione tra Nietzsche e Wittgenstein, è tornato a Epicuro. E così scrive di vino, sapori e spirits, di viaggi, di teatro e danza. Veneziano, fa base a Praga. Ama il whisky scozzese e le Dolomiti.

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